Qualche giorno fa, parlando con delle persone del mio post nel quale esaltavo le tante possibilità espressive offerte dalla tecnologia e dal WEB ai giorni nostri (perché i miei post sul blog e su Facebook sono addirittura, a volte, argomento di conversazione) mi è stato fatto notare che questa accessibilità semplificata a tutti questi strumenti ha anche, fatalmente, causato un abbassamento della qualità della proposta “artistica”. Beh, si, è l’altra faccia della medaglia, non lo nego.
Nella musica, ad esempio.
Una volta prima di entrare in uno studio di registrazione c’era una selezione, una sorta di filtro, che faceva arrivare a realizzare un disco chi ne aveva effettivamente le capacità, o almeno le potenzialità.
Ora, di fatto, quel filtro praticamente non c’è più. E, si, la differenza si sente.
Dando a (quasi) tutti la possibilità di produrre musica in totale autonomia è aumentata a dismisura l’offerta e quindi (la statistica non è un opinione) è cresciuta numericamente anche la quantità di produzioni di medio-bassa qualità.
Probabilmente anche i nuovi modi di ascoltarla hanno fatto la loro parte, plasmando ascoltatori sempre più distratti e dallo skip spesso fin troppo compulsivo.
Insomma, messa così come l’ho appena raccontata pare che le nuove frontiere della produzione e della fruizione abbiano fatto più male che bene alla musica.
Forse è davvero così, ma io resto dell’idea che la qualità ci sia ancora. Probabilmente è solo più difficile da scovare. Avere tutto a portata di click rende più difficile scegliere, e infatti spesso lo lasciamo fare agli algoritmi.
In questo Mondo dove sembra andare tutto a mille all’ora, forse le nuove generazioni stanno smarrendo la pazienza che occorre nella ricerca di quello che veramente vorrebbero ascoltare. Quella che a noi ci faceva stare due ore in un negozio di dischi per poi uscire con in mano un unico LP.