Da bambino e da ragazzino ero di costituzione minuta.
All’asilo, alle elementari (e anche alle Medie, a dirla tutta) sono sempre stato agli ultimi posti dell’ipotetica classifica dei più corpulenti. Ai giardini, quando giocavamo a calcio, per distinguermi dagli altri Massimo più grandi (cioè tutti), io ero “Massimino”.
Una volta, credo fosse verso la fine delle elementari, la maestra ci assegnò un tema nel quale dovevamo descriverci.
Con il chiaro intento di fare una battuta di spirito, chiusi lo scritto autobiografico (nel quale avevo posto l’attenzione proprio sul fatto di non essere esattamente un gigante) scrivendo “Il mio vero nome non dovrebbe essere Massimo Grosso, ma Minimo Piccolo.”
Portai il tema a casa, avevo avuto un buon voto, ed ero davvero fiero del finale che mi ero inventato, lo trovavo geniale. Per carità, non era Oscar Wilde o Woody Allen, ma facevo pur sempre solo le elementari, che diamine.
Diedi il quaderno a mia mamma con lo sguardo compiaciuto come a dire “Hey mà, va che roba che scrive il tuo bimbetto.”
Lei lesse tutto il tema e quando arrivò a quella frase si mise a piangere. Pensava che lo avessi scritto in preda ad una possente crisi di autostima, che probabilmente avrebbe compromesso la mia felicità per sempre.
In quel momento capii che non sempre quello che scriviamo e come gli altri lo interpretano sono la stessa cosa.