Non frequento più molto la nightlife provinciale, ma mi capita ancora, ogni tanto, di finire in posti dove è previsto un DJ set.
E siccome non riesco, neanche volendo, a non fare caso a come viene proposto il sound della serata, poi mi ritrovo a fare le mie considerazioni, che sono un po’ da “addetti ai lavori” e forse sono pure esageratamente puntigliose e pignole, ma sincere.
Premesso che nei miei anni alla console di vaccate ne ho fatte pure io in quantità, quindi lungi da me ergermi a maestrino del djing, e premesso anche che la scelta dei pezzi è sempre “de gustibus”, quello che mi salta alle orecchie in negativo ascoltando certi set è quando sono quasi del tutto “sgrammaticati”.
Passaggi mixati : pochi e possibilmente sbrigativi, spesso i cambi da un pezzo all’altro sono tagli con l’ausilio di filtri sulla canzone uscente, o addirittura stop musica e poi partenza, pochi istanti dopo, del pezzo successivo, magari con l’intervento di un vocalist a fare da collante. Insomma, tecnica di base, giusto un paio di tacche sopra lo zero.
Selezione musicale : quasi del tutto casuale. Il vecchio e caro dettame che suggeriva di creare un flow godibile affiancando il più possibile pezzi con lo stesso mood mi sa che ad alcuni non è stato tramandato. Non voglio fare il fondamentalista, ma sentire (ad esempio) l’attacco di “Give me everything” di Pitbull dopo “La Notte vola” della Cuccarini è l’equivalente sonoro delle unghie sulla lavagna.
Non è assolutamente detto che un set di questo genere non funzioni, perché questo dipende anche dalla situazione nella quale viene proposto.
Ma penso che questo modo di approcciarsi alla console faccia passare il concetto che per avere la “patente” da DJ sia sufficiente essere in grado di appiccicare una dopo l’altra alla bell’e meglio una sequenza di hits all time a casaccio, e se la pista bene o male si muove, a posto così.
Non so se questo sia un bene.